Tra i vigneti e il borgo che li domina, l’ultimo respiro profondo prima di diventare adulti ~ di Ilaria Giannini
Sul finire dell’estate della maturità sono diventata un bracciante agricolo per la vendemmia a Montecarlo. L’impiego me l’ha trovato un amico, sa che ho bisogno di soldi per andare via di casa e trasferirmi in città e così ogni mattina prendo l’auto di mio nonno e percorro i 40 chilometri che dividono il paese della Versilia in cui sono cresciuta dall’azienda vitivinicola dove lavoro. Troppe curve per una neopatentata ma la vista ripaga lo sforzo: guido tra le onde verdissime di un mare d’olivi e vigneti, tra le colline ricamate a filari stretti d’uva rossa e bianca, avanzo tra la bruma che sale dalla pianura e l’aria settembrina, che sa di erba e acini bagnati. Un paesaggio disegnato dall’uomo sin dai Romani e con la tuta scolorita, i guanti da giardinaggio e il fazzoletto sui capelli anche io sembro uscita da un altro tempo: un tempo più semplice, sul cui sfondo posso scomparire per un po’.
Per nove ore al giorno recido il cordone che lega ogni grappolo alla sua vite: sono l’Atropo dell’uva e la notte sogno le grandi forbici con cui lavoro che si aprono e si chiudono, incastrate in un’orbita perpetua. La mattina abbondo col correttore e preparo il cestino per mezzogiorno: un panino, una mela, la panzanella avanzata la sera precedente. I vigneti dell’azienda si arrampicano sulle colline: li vendemmiamo partendo dall’alto, trascinandoci dietro la cassetta dove raccogliamo i grappoli, la mia l’ho legata con una corda intorno all’addome, perché si muova con me. Siamo studenti, casalinghe, pensionati: parliamo di scuola, di figli, di rimpianti, ci raccontiamo barzellette sconce, mangiamo insieme sotto una quercia e dormiamo all’ombra per il resto della pausa pranzo. Montecarlo con le sue mura, il torrione e il campanile svetta sopra le nostre teste, è quasi un altro pianeta: ho imparato a indovinare l’ora osservando la parabola del sole che si muove sopra il borgo.
Alla fine di ottobre ci dispensano: le uve sono in cantina, predisposte per la fermentazione e anche io dovrei essere pronta a iniziare il mio viaggio verso l’età adulta. L’ultimo giorno i proprietari dell’azienda ci invitano a passare dalla loro sede centrale per regalarci una cassa di vino: entro a Montecarlo tutta sporca e arruffata, il borgo è un’armoniosa vetrina medievale, dal tipico colore del cotto. Dopo due bicchieri di rosso il capo ci svela una porticina segreta e una rampa dall’aria traballante: salgo sopra le mura costruite nel Trecento e osservo i vigneti che ho conquistato col sudore, lo spiazzo d’erba su cui mi sdraiavo a riposare, questa terra rigogliosa tanto vicina eppure così diversa dalla mia. Quassù capisco che ho avuto il lusso di mettere in pausa la mia vita per due mesi ma appena scenderò le scale riprenderà il suo corso.
Quando tornerò a Montecarlo, sedici anni dopo, avrò un marito, un abito di seta azzurra e un discorso da pronunciare al matrimonio di un’amica. Ballerò tra i vigneti e questa volta guarderò la luna compiere il suo arco sopra i bastioni del borgo.