Il Castello di Massa nell'incanto sospeso del giardino del tempo
Negli ultimi decenni del Quattrocento il Marchese di Massa Iacopo Malaspina costruì, in più momenti, una residenza signorile nell’ambito delle strutture dell’antico castello medioevale arroccato sul colle, dando vita a un’opera ricca di suggestivi valori architettonici ed estetici.
Così, in lontananza, nulla traspare dagli imponenti bastioni che torreggiano su Massa dell’elegante bellezza racchiusa nella fortezza, e sempre un meravigliato stupore coglie il visitatore ogni qual volta varca la soglia del cortile rinascimentale.
È un fascinoso canto modulato nel candido marmo delle vicine
Apuane che lo accoglie, nel contrasto conciliato con le rocce native e i grevi
bastioni, ricchi di erbe spontanee, che dall’alto incombono sulla piazza gentile,
dove i due pozzi dialogano come in contrappunto trobadorico di antiche
melodie.
Sul fronte più antico del palazzo malaspiniano, che affaccia sulla corte ducale nel castello di Massa (raro esempio di sopravvissuta e accesa decorazione rinascimentale di esterno), quattro iscrizioni incise con caratteri fioriti sulla stretta fascia marmorea tra gli architravi e le cornici delle finestre, simili a un fregio continuo, svolgono un unico tema, cadenzandolo nei modi di una litania sacrale o di una sentenza oracolare:
SEQUITA EL TEMPO, ASPETA EL TEMPO, VA COL TEMPO, COL TENPO
Come se la dimensione temporale, Passato-Presente-Futuro, mancasse alla tematica naturalistica delle decorazioni per la loro completezza, e, come ricercandone il vero motivo e tema ispiratore, il TEMPO si mostrasse esplicitamente in tale forma del ciclico divenire, quale quint’essenza di quel microcosmo simbolico, graficamente titolo e, nel medesimo istante, firma dell’intera opera architettonica rinascimentale.
Le parole scolpite nel cortile dei Malaspina richiamano in
toni sommessi un riflesso dell’intensa speculazione sulla tematica del divenire
temporale, che così fortemente avviluppa e condiziona la realtà del vivere
umano, e che occupa uno spazio indubbiamente importante nella ricerca
filosofica dell’epoca, come, del resto, nella sua ansia poetica; entrambe colme
di moderna inquietudine.
In quegli anni Giovanni Pico della Mirandola, partito dalla sua Ferrara per giungere alla corte medicea, aveva raggiunto la cugina Taddea, sposa del Marchese di Massa, al superbo castello, e lì aveva dettato le belle epigrafi di neoplatonica ispirazione, arricchendole di un ancor più segreto e misterioso motto latino: DIE-TIT-DIE, che solo occhi esperti e curiosi riescono a leggere inciso in un nastrino marmoreo sotto una graziosa sfera armillare.
Corte, giardino di pietre e di erbe, piazza privata, hortus conclusus con modeste pretese monumentali. Metafisico recesso della città e suo dolce e vero cuore, indifferente all’incerto moto di quel “tempo” imprigionato nel marmo dei suoi architravi. Frutto maturo di una conoscenza e una cultura artistica antiche.