Meraviglie a Bellosguardo ⁓ di Cesare Baccetti
L’avevo incontrato più volte all’osteria. Noi mangiavamo sul retro, lui nella sala grande dove il camino riscaldava l’ambiente. Seppure avessi lavorato molto alla villa di Bellosguardo, non l’avevo mai visto.
Enrico Caruso, non era solo un nome, una voce. Era una leggenda. Una celebrità che viveva in quella villa splendida, lontano dalla mondanità. Dovevo ritenermi fortunato poiché avevo realizzato la balconata in pietra, proprio a margine del viale alberato.
Da lì si apprezzava la gioia del silenzio. Mangiava da solo, talvolta faceva qualche parola con l’oste. Una volta l’avevo visto parlare con un uomo che sembrava quasi un mendicante. Aveva però la fronte alta e gli occhi austeri, caratteristiche che in genere i poveri non hanno.
Dino, si dice sia uno scrittore. Un tipo taciturno, selvatico. Nei giorni successivi i due si erano messi allo stesso tavolo, l’uno vestito in doppiopetto e l’altro in camicia scura. Una coppia curiosa, attraente, una diversità obliqua che s’incontra in un punto.
Facevo lo scalpellino, la mia famiglia era di origine contadina. In paese non c’erano che due mestieri, oltre alla lavorazione della paglia. Lavoravo in cava, talvolta a domicilio. Poteva essere un lavoro artistico, ma capii presto che si lavorava più per il lavoro che per le forme dell’anima. Da quando li avevo visti insieme la mia curiosità era cresciuta. Ne osservavo i gesti, gli sguardi, immaginandomi parole e musica. All’alba, nell’andare a lavoro in villa, per le ultime rifiniture, incontrai Dino che percorreva la mia stessa strada.
Camminava davanti a me con passo svelto, gli occhi nel vuoto. Si diresse subito lungo il viale che portava all’ingresso. Mi nascosi dietro la grande siepe di alloro. Si fermò sulle sedute in pietra della balconata. Le avevo scolpite io. Sembrava aspettasse qualcuno. Forse una donna. Si appoggiò alla balconata. Si mise a scrivere.
Dalla villa si udirono alcune note al pianoforte. Si voltò all’improvviso. Poco dopo la voce di Caruso si mischiò alla musica. Di nuovo a scrivere. Una pagina dopo l’altra, affamato di tutto e di niente.
Un libretto ingiallito di mio nonno, in soffitta. Da quel momento mi ero appassionata a Enrico Caruso e a Dino Campana. “Abbiamo trovato delle rose, erano le sue rose, erano le mie rose, questo viaggio chiamavamo amore...”
Erano state scritte proprio là. In vacanza avevo scelto Firenze, per cercare una villa, un luogo, un tempo. Era lì che aveva proprio fatto un’opera d’arte. Appena arrivata ho cercato subito quella balconata. Non era facile in mezzo a tanta bellezza. Una villa splendida, sobrietà e diletto, opere d’arte che si mischiavano con un odore di bosco selvatico. Eccola. Mi sono seduta sulla pietra. L’aveva fatta mio nonno. E lì c’era stato Caruso e un poeta scontroso e ribelle.
Ho guardato quelle colline, quella quiete assoluta, e il silenzio assordante. Mi sono abbandonata a un ricordo lontano. Dalla villa sono giunte delle note e una voce, una voce più bella del silenzio.