Chiamami Giuseppe Ghizzi.
Tanto tempo fa era il mio nome, il nome del notaio che camminava tra i vicoli d'un borgo stretto tra gli ultimi colli della Toscana e i primi monti dell'Umbria, Castiglion Fiorentino.
Mi
piace confondermi tra l'argento delle chiome d'olivo, le pietre
antiche dei mulini, l'aroma dei cipressi... Orzale, Santa Margherita,
Collesecco, Santa Cristina, Pieve di Chio. Potresti scorgermi anche qui,
mentre passo lungo le sponde del torrente Cilone, accarezzate dalle
fronde dei quercioli. Chissà, forse Leopoldo II, cingendo la corona
imperiale del Sacro Romano Impero, avrà volto per un attimo la mente
dai tetti aguzzi di Vienna a questa valle stretta tra i monti. "Valle di Chio, Valle di Dio": la definì, ebbro della sua
bellezza di giardino curato.
Ecco, sotto di me si distende la piana che tanto abbacinò un altro Tedesco, quel Goethe innamorato della "terra dei limoni". Ora sono alla Fattoria di Brolio, in un paesaggio di colli e campi che rammenta le colline di Siena, là sul filo dell'orizzonte. Come per quelli, qui è stata la mano dell'uomo a creare una campagna fatta giardino, partendo però da una palude pericolosa per i suoi miasmi e per le sue acque, tanto da far quasi annegare la povera Santa Margherita, un giorno che la attraversò.
Medito
su questo, e cammino sul Sentiero della Bonifica. Dove c'era fango, e
malaria, e veleno, ora ci sono campi addormentati, che aspettano
soltanto il bacio del sole per esplodere nel giallo del grano.
Purtroppo, non c'è solo la vita nel ripassare in mezzo a quella che fu la mia terra. C'è anche la morte, la morte della mia civiltà, la civiltà contadina.
Io la conobbi. I tuoi nonni la conoscevano. Tu non la conosci.
Eccola, tuttavia, riflessa nelle rovine delle leopoldine, le fattorie volute dal Granduca per strappare queste terre alla palude, ora malinconici giganti atterrati. Giganti che si stanno però rimettendo in piedi. A passarci tra dieci anni, sentirò, sentiremo, ancora il richiamo dei contadini per la mietitura e il moderno rombo dei trattori al posto dell'antico muggito dei bovi chianini.
Su tutto vegliano, severo come quando vi soggiornava il condottiero Giovanni Acuto, i merli e le mura del Castello di Montecchio, un titano d'arenaria con gli ulivi per corona.
Stanno calando le ombre della sera. È tempo che io ritorni di là. Prima, però, un'ultima occhiata ai tesori della terra che tanto mi fu cara. Entrerò nella Biblioteca, là dove potresti vedermi, ombra tra le ombra, in mezzo al lavoro d'una vita, gli scaffali carichi di manoscritti e cinquecentine in cuoio e pergamena.
Ora si va alla Pinacoteca. All'ultimo piano di Sant'Angelo, la chiesa delle carceri dove si gemeva e si pregava in attesa della pena, ecco la gloria di Bartolomeo della Gatta, S. Francesco mentre riceve le stimmate! Sotto lo sguardo a sfinge del barbagianni dipinto, nel ripensare a tutta la piccola, grande bellezza del mio paese, si disegna sul mio volto un sorriso, lo stesso del Santo.