La Grancontessa Matilde di Canossa – tanto per capirci, una donna che nel 1076 possedeva in Italia tutto ciò che era a nord dello Stato Pontificio e che l’imperatore Enrico V intitolò viceregina d’Italia – aveva, come la maggior parte delle persone, alcuni vezzi. Per alcuni il più dolce dei suoi capricci era l’affetto per il suo merlo da compagnia. All’epoca andava molto la falconeria, re e principi non mancavano mai di farsi ritrarre con al polso l’immancabile rapace, l’ultima moda in fatto di civetteria importata dal medio-oriente. Ma alla Grancontessa piaceva distinguersi, e quindi il suo pennuto del cuore era un più umile merlo. Uccello magico, per altro, dotato di capacità predittive e dal canto allegro e non privo di doti imitative. Un volatile da Grancontessa, per farla breve.
A un certo punto però il merlo si ammalò. La circostanza rattristava molto la Grancontessa Matilde: veder penare il povero pennuto, perdere le piume, zoppicare con la zampetta destra ritratta, svolazzare basso e patire, ogni giorno di più erano una vera pena. Malgrado le sofferenze però il legame tra Matilde e il merlo era tale che la contessa continuava a liberarlo, sperando di infondergli fiducia, e il merlo, da un certo punto in poi, prese a migliorare. L’evento aveva del prodigioso e tendeva a ripetersi. Un giorno, due, tre. Dopo una settimana il merlo ogni giorno tornava sempre più rinfrancato, il suo canto si faceva più nitido, e una domenica mattina Matilde ebbe addirittura l’impressione che l’uccello le facesse il verso, con quella vocetta stridula… Decise così di farlo seguire per scoprire cosa l’avesse rimesso in sesto.