A Capalbio si professa il culto della caccia, tanto che il cinghiale è diventato il simbolo del paese nostro. Io però sono nato in una famiglia di raccoglitori e così non ho mai partecipato alla celebrazione dei riti della caccia, d’altra parte fin da bambino ho conosciuto ugualmente la fitta vita del sottobosco, andando in cerca di porcini e d’asparagi. Il mio posto preferito per coglierli è sempre stato Capalbiaccio: i ruderi inselvatichiti d’un fortilizio bassomedievale che la macchia ha rifagocitato. Almeno quattro cose mi legano indissolubilmente alle rovine di quella rocca: due leggende, una scoperta e una dichiarazione d’amore. Mi limiterò alle prime due. Bisogna anzitutto sapere che il castello di Capalbio è più nell’entroterra rispetto al poggio dove sognano indisturbati da secoli i bastioni diroccati di Capalbiaccio, questo dettaglio topografico è rilevante perché va a corroborare la storia che circola tra le nostre genti: prima Capalbio non era dove è ora, fu spostato più lontano dal mare e su un poggio meno dolce per difendersi meglio dai pirati, Capalbiaccio è la vecchia e originaria Capalbio, espugnata e distrutta a scopo di saccheggio dalla ciurma del Barbarossa.
Su chi fosse questo Barbarossa nessuno si pronunciava, chi mi rispondeva, poi, mi diceva: «Federico Barbarossa, non lo sai?» E io tacevo, sentendomi in colpa perché non lo sapevo, anche se non capivo per quale motivo l’Imperatore fosse un pirata. Solo da grande ho scoperto che il pirata Barbarossa era un corsaro ottomano che si chiamava Khayr al-Dīn ed era vissuto centinaia d’anni dopo la morte di Federico I Hohenstaufen. Sempre da grande ho scoperto che Capalbiaccio non è mai stata Capalbio, che anzi neppure si chiamava così, il vero nome era Castello di Tricosto. Non fu distrutta dai pirati, né tantomeno dall’Imperatore, ma per motivi strategici dai senesi in conflitto cogli Orsini. La leggenda popolare però – come spesso succede – dice più dei fatti storici accertati e sciocco sarebbe ricondurla semplicemente all’ignoranza del volgo e all’analogia assimilatrice fallace con i limitrofi fortilizi dello Stato dei Presidi.
In verità la leggenda è frutto d’un tratto mentale arcaico specifico della costa tirrenica: il terrore per le prepotenze che vengono dal mare. L’esempio più significativo di questo tratto mentale lo troviamo nel mito romano sulle origini: l’approdo di Enea, la sua progenie che sottomette le genti autoctone. Ma tracce di questa costellazione psicologica sono riscontrabili (per l’enfasi particolare e per la volontà di ricordare) anche in epoca storica: Cartagine, Pompeo contro i pirati, l’aneddoto di Cesare rapito, il personaggio di Lica in Petronio et coetera. Il legame tra il mare e il castello distrutto emerge anche da una seconda leggenda, secondo la quale Capalbiaccio è collegato da una galleria sotterranea al porto etrusco dell’Ansedonia. Talvolta basta stare in silenzio e ascoltarsi, ché il subconscio riveli se stesso e la rete dei suoi cunicoli.