Sono
un giovinetto di terra e pietre, alto come nove torri. Giro con le vigne arrotolate al collo e in
vita una cintura di lecci. Avrò ottocento anni. Ma non c’è da avere paura, sono
anch’io uno di qui, magari più alto del solito. Poi elegante. Barba verde a
primavera e in autunno mosto. Giro dicendo “Mì”, un gridolino etrusco di
stupore che quando lo fanno le donne sembrano uccellini. Significa: “Toh,
guarda”. Mi trovi in un giardino, c’è uno sbuffo. Curioso, perché le fronde
degli alberi sono ferme. Ma lo so che è successo, lo so. Erano le narici che
sfiatavano...
Tra i
vecchi mobili, la luce è gialla. "Ciao,
sono Ada, poi c’è mia sorella Marghe, è sopra, ora scende. Sa, una volta si lavorava da uomo, sarebbe a
dire da sarte. Ecco Marghe".
"Buongiorno, mi spiace che siamo tutte struffate".
"Ma
no, siete belle!"
"Che siamo?" Inutile
ripetere che son belle, tanto non sentono.
Ada ride. Mi fa: "anche Marghe non sente. Io avrei l’apparecchio, ma un
va. Toh, se lo tolgo senti come fischia. Tiiiii". Ride.
Marghe fa un
cenno, mi avvicino. Abbassa la voce: "io c’ho novantuno anni, Ada
ottantacinque. La mia preoccupazione è se muoio prima di Ada".
All’inizio
di via Castellana, quando la strada e i muri erbosi scendono come dei matti, ci
sono le porte marroni delle vecchie rimesse. Da lì poi si va negli orti e tra i
cespi d’insalata. Dentro una di queste
rimesse, se non piove o nevica, delle donne anziane stanno a un tavolo. Le
senti, maremma, maremma. Giocano a carte nel social club del garage. A sera la
partita finisce, sciamano tra le damigiane e si salutano arrochite come se
fossero state allo stadio. "Oh, alla prossima", si accommiata la padrona di casa. "Sì Nini", fa un’altra, "però ascolta o' cara: hai avuto culo!"
Ed eccoci a fine giornata. Quando è buio e ormai i bar hanno tirato giù la saracinesca, gli ultimi gruppi sono in piedi ai tavolini, si salutano: ciao. Però non se ne vanno. Attendo in cima al campanile che finiscano di accomiatarsi, e quando il paese è azzittato, balzo a terra e vado in giro senza più la preoccupazione che qualcuno veda il mio torso di pietra. Allora mi senti la voce. L’una, e lo dico, don. L’una e qualcosa, e io faccio la ribattuta, don. La mezzora don, quasi din. E le teste di tutto il paese, quelli a letto e gli alzati alla tv, fanno sì. ‘Notte citti.
Al confine col paese, la notte si tocca. Un viaggiatore imbocca la via principale, vuole circumnavigare la giornata. Le due, al panificio impastano. L’alba, in piazza il camion dei netturbini raspa. Si accende il bar. Le sette, apre il tabaccaio, sferraglia la saracinesca del farmacista. In un calanco la ferrovia sbadiglia. Le otto. Un fiume d’auto, i bambini vanno a scuola. La mezza, la natura trasporta i colori alla pittrice. Vien bene un pranzo sull’aia, un treno scivola tra i paesi. Le sei, all’albergo le donne fanno i biscotti. È notte, la fortezza langue.