Erano predoni
alla continua ricerca di tesori gelosamente celati dai secoli. Oscuri e
sfuggenti trafficanti che vivevano nel buio, tra i frammenti di pietre disseminati un po’ ovunque.
Qui, dove l’apice della potenza etrusco-romana si
esercitava fra le mura e la piazza che si apre sul pianoro, fra le tabernae,
l’anfiteatro degli enigmi e le rovine del tempio, dove la statua di Agrippina
dormiva stanca del figlio Nerone, una volta, dicono i tombaroli che
frequentavano l’arce nelle notti tempestose, proprio qui, sotto le pietre della
storia, fu trovato un incredibile essere scintillante. Veniva dalla vicina Vetulonia, dove raffinati artigiani lavoravano nobili
metalli e dopo rapide palate, spuntò
all’improvviso mandando lampi furenti tra le zolle riarse dal vento.
Una
bestia ibrida, un demone ultraterreno che
ruggiva tra le mani: forse aveva una testa di
scimmia o forse quella di un leone a due teste, ma di certo aveva una coda da
serpente sibilante che spuntava da sopra la schiena e sputava fuoco da ovunque
pronto a sferrare il suo attacco micidiale.
Sotto i
bagliori della luna, la parola Tinscvil
rossa di fuoco, comparve su una zampa della creatura infernale. Era un
dono a Tinia il supremo dio etrusco, il cui attributo distintivo era la folgore? Era un sogno o una chimera?
Era d’oro o di bronzo? Mah! Era preziosa come un tesoro, ma feroce come il
demonio e i tombaroli atterriti la lasciarono cadere scappando a gambe levate
da quel luogo pieno d’arcani misteri.