Come soffitto, il cielo ~ di Giulio Pedani
Il piccolo appezzamento che coltivi guarda dall’alto la gigantesca abbazia senza tetto. Ora che dovrai partire per la guerra, smuovi con le mani la terra rossa per l’ultima volta, come se la stessi carezzando, poi cogli qualche frutto e lo lasci cadere. San Galgano domina la valle come un fortilizio emerso dal grano. Sei venuto per salutare il grande rudere, questa è la verità. Ti ha visto per più tempo lui della tua casa, dei tuoi bambini. Da piccolo nelle notti d’estate ci correvi dentro urlando come il signore dei rapaci. Non potevi farlo in nessun’altra chiesa, e in nessun’altra, in primavera si poteva giocare con la palla di stracci su un pavimento lucente d’erba morbida. Nei pomeriggi interminabili, con gli amici del paese vicino, vi nascondevate per ore tra i pilastri e le porte. Alla donna che sarebbe diventata tua moglie non piaceva andarci di sera, diceva che il grande rosone aperto sembrava l’occhio di un mostro. Ci tornavi sempre da solo e ti divertivi a trovare definizioni per quella costruzione prodigiosa, cercando di infrangere con la fantasia il muro della tua quinta elementare. Un tetto stellato. Il castello dei maghi. Fortezza distrutta. Ospedale delle streghe. A volte ti sembrava che tutte quelle fessure nelle mura ti parlassero come piccole bocche del cielo. Il giorno che morì tua madre l’abbazia era immersa nella nebbia, camminasti tutto intorno senza sapere cosa fare, circondato in silenzio da quei vapori che la avvolgevano dal basso dei campi come fumi sotterranei.
Sei tornato a casa ma non c’è più niente da mangiare. I tedeschi sono dappertutto, ma nel bosco conosci strade dove nessuno ti può trovare. Hai così fame che rischi la vita per andare a vedere se nel vecchio campo abbandonato è cresciuto qualcosa da sé. La guerra ti ha trasformato in uno spettro ossuto che ora si aggira per la macchia, tra i rovi e le querce, rasentando grotte misteriose e muretti scalzati dall’edera. Alla fine di una marcia di ore per la foresta risali il pendio che porta al campicello, eccoti in cima, ecco l’abbazia, è lì, ancora in piedi dopo altri anni di sangue, immobile di fronte alle guerre e ai secoli, a Federico II e Innocenzo III, alla peste, ai predoni delle compagnie di ventura, ai fulmini. Il campo, lo sapevi, è invaso da erbacce e piantine spontanee rinsecchite, ma gli alberi grondano frutti. Non smetti di osservare dall’alto il grande rudere scoperto, le feritoie, l’abside, i contrafforti, il cimitero, lo fissi mentre divori tutte le mele che ti entrano nella pancia, comincia a piovere, buono per il prato che già ricresce tra le navate.