Il segreto di Castell’Azzara è racchiuso nel suo stemma: un maniero composto da tre torri rosse in cima alle quali c’è un dado. Su ogni dado un numero: tre sulla torre di destra, cinque in quella centrale, la più alta e quattro sull’ultima. Che significato hanno questi numeri? E’ il risultato del gioco che Ildebrandino, Bonifacio e Guglielmo Aldobrandeschi fecero tra di loro nel 1212. I tre fratelli erano in viaggio nelle zone dell’Amiata per perlustrare i possedimenti dei conti quando a un certo punto si fermarono in cima a un poggio che dominava tutta la valle del Fiora. Il paesaggio era stupendo, ma quello che interessava ai tre fratelli era soprattutto la posizione strategica per la difesa. E quel poggio sembrava essere il posto giusto, mancava solo un castello a presidiare quell'osservatorio naturale. «Bisogna costruirlo e dobbiamo farlo qui» pensarono all'unisono. Sì, ma chi doveva farlo? I fratelli ebbero l’idea di far decidere la sorte e si sfidarono ai dadi in un gioco d’azzardo medievale. Come andò a finire? La storia non lo dice, ma chiunque sia stato ha pensato anche ai fratelli facendo costruire non una ma tre torri.
Oggi Castell’Azzara è un borgo di meno di duemila anime, un intrico di viuzze che portano i nomi di scrittori e poeti. A vederlo non si direbbe, ma in un recente passato è stato anche un importante centro minerario. Sono stati proprio gli scavi a rendere il borgo autonomo dal Comune di Santa Fiora, nel 1915. Tra ‘800 e ‘900 Castell’Azzara era il centro per l’estrazione del cinabro, secondo solo alle miniere spagnole di Almaden. Il cinabro è un minerale raro da cui fino a pochi anni fa si estraeva il mercurio, quindi molto tossico. Ma attorno a lui sono nate storie e leggende ed è fonte di ispirazione anche nella filosofia orientale. Da molti era considerato magico e primordiale perchè si trova nelle rocce vulcaniche, nelle viscere della terra. Grazie al suo colore rosso fu usato come pigmento nella pittura e anche come cosmetico nonostante la sua tossicità.
Castell’Azzara rientra nella via Francigena, il percorso che i pellegrini coprivano a piedi da Roma alla Manica. Ma non è l’unico itinerario legato al borgo amiatino. Ne esiste un altro, molto amato, più che dai pellegrini, dai buongustai: ovvero gli amanti del tartufo. Al tubero, raffinato protagonista della cucina italiana, è infatti dedicata una via che unisce il Piemonte alla Campania. L’Associazione Nazionale Città del Tartufo che l’ha fatta nascere ha tra i suoi obiettivi anche quello di spingersi ancora più a sud. Questa strada ha la particolarità di sovrapporsi ad antichi tracciati commerciali, lungo i quali, per facilitare scambi e passaggi di merci preziose, si costituirono comunità di accoglienza e ristoro, organizzate in borghi e insediamenti abitativi. Una tradizione che ha contribuito a valorizzare il territorio preservandone le ricchezze. Oggi le città toccate da questo percorso sono una cinquantina e insieme aspirano a una candidatura Unesco.